Striscia di Gaza e USA. Il gesto di pace, in guerra. E la follia di armare i bambini in tempo di pace. #fotoracconto
Ieri mi domandavo se era possibile evitare una guerra in Libia per combattere l’ISIS. Che da lì minaccia l’Italia.
Per formazione, per scelta, ho sempre sostenuto che ci deve essere un’alternativa alla guerra, ma la strana forma dell’ISIS, che non è uno Stato (anche se si definisce così), non ha organismi diplomatici, non ha confini, se non quelli che si prende con la forza, la stranezza insomma di questa formazione, rende oggettivamente difficile la via diplomatica.
Oggi, ad un’analisi più attenta, possiamo sostenere che non c’è alternativa alla pace.
Ecco le (almeno) 5 buone ragioni per far partire subito, subito, un processo diplomatico e non violento per uscire dalla crisi libica, rischiosissima per noi.
E’ opinione comune di molti osservatori. La presenza di soldati in Libia, anche sotto l’egida ONU, compatterebbe contro, quella galassia informe di milizie di cui oggi è impastato il Paese. L’intervento militare non porterebbe sollievo, aumenterebbe il caos, la violenza, le morti innocenti e l’odio antioccidentale. Ha scritto Lucio Caracciolo, direttore di Limes: “Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più”.
Devo confessarvi che mi trovo davanti a notizie che mi sembrano arrivare dai secoli più bui della storia.
Ad esempio, prendete l’ISIS che vuole fondare lo Stato islamico, aggiungeteci che tra i tanti abomini, cerca di cancellare dalla faccia della Terra gli Yazidi, una minoranza di lingua curda. Amnesty International lancia in queste ore un allarme soprattutto in riferimento alla condizione delle ragazze rapite ma l’allarme cade nel vuoto.
Io qui lo rilancio e pubblico due storie che mi lasciano senza fiato.
Parla Mayat, una ragazzina prigioniera dell’ISIS.
Dove vive?
«In una grande casa, saremmo una quarantina di ragazze. La prego non scriva il mio nome, perché sono così imbarazzata per ciò che m’infliggono. Una parte di me vorrebbe morire. Ma un’altra parte spera ancora di salvarsi e di poter riabbracciare i genitori. E’ così che vado avanti».
Cosa vi fanno?
«Abusano di noi. I nostri aguzzini non risparmiano neanche quelle che hanno un figlio piccolo con loro. E non salvano neppure le bambine: alcune non hanno compiuto neanche 13 anni. Loro sono quelle che reagiscono peggio a questo schifo. Ce ne sono alcune che hanno smesso di parlare. Una s’è strappata i capelli e l’hanno portata via».
Dove avvengono le violenze?
«All’ultimo piano della casa. Ci sono tre stanze per le violenze. Le stanze degli orrori. Ci trattano come se fossimo le loro schiave. Ci stuprano anche tre volte al giorno».
Chi sono i vostri stupratori?
«Non lo so. Alcuni sono vecchi, altri giovani. Alcuni sono vestiti come dei militari, altri indossano gli abiti degli arabi, altri ancora sono persone apparentemente normalissime. La notte, anche i nostri carcerieri ci saltano addosso. Veniamo date in pasto a uomini sempre diversi. Alcuni arrivano addirittura dalla Siria. Ci minacciano e ci picchiano quando tentiamo di resistere. Spesso vorrei che mi picchiassero abbastanza forte da uccidermi. Ma sono dei vigliacchi anche in questo: nessuno ha il coraggio di mettere fine al nostro supplizio.
Vorrei che gli americani si sbrighino a farli fuori tutti, o che mi centrino con una loro bomba, perché io non so quanto resisterò. Hanno già ucciso il mio corpo. Stanno uccidendo anche la mia anima».
Continua la lettura di MAYAT, 17 ANNI: “IO, PRIGIONIERA DELL’ISIS”
Le parole del Papa ieri («Tutto si perde con la guerra. Tutto si guadagna con la pace») mi hanno fatto ricordare qualche anno fa, quando in Italia c’era il servizio militare ed io feci una scelta che ancora oggi rivendico: obiezione di coscienza.
Piuttosto che passare un anno a giocare con le armi in qualche caserma d’Italia, dovendo regalare un anno allo Stato, preferii mettermi a disposizione per qualcosa di buono. E passai un anno al carcere minorile. Servizio civile sostitutivo. Continua la lettura di Io, un obiettore
Padre Paolo Dall’Oglio è un gesuita italiano che ha fondato in Siria, tra le pietre del deserto, una comunità diventata un seme per il dialogo con i musulmani.
Mi sono fatto l’idea che quando un giorno ci sarà la pace e i musulmani e il resto del mondo dialogheranno senza più reciproche incomprensioni, quel giorno sarà arrivato anche grazie al lavoro di padre Paolo.
L’ho conosciuto circa due anni fa, è stato ospite di A Sua Immagine (clicca qui per rivedere) e ne ho tratto l’idea di un uomo ricco di ogni talento.
E come accade a queste grandi personalità, è stato completamente sedotto da Dio, per una causa che quando padre Paolo ha iniziato sembrava lontana e secondaria, e oggi invece è centrale: il dialogo con l’Islam.
Ora il regime siriano vorrebbe allontanare padre Paolo e qualche ora fa i soldati sono entrati con le armi nel suo monastero (foto sotto).
Padre Paolo non c’era (era a qualche km di distanza) ma lui è convinto che lo stessero cercando.
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