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Se Facebook tira fuori il peggio

Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell’Azione Cattolica, www.azionecattolica.it

Nei giorni scorsi ho pubblicato sul mio blog un testo volutamente polemico (ah cosa non si fa per qualche click in più!).

In sostanza dicevo che aveva fatto bene quel preside ligure a vietare ai docenti del suo istituto di diventare amici degli studenti su Facebook. Ho ricevuto moltissime reazioni. Le più intelligenti sono sul mio blog. E le altre?

Qualcuno mi ha trattato come Cesare morente con Bruto, tu quoque? Anche tu ti permetti di sollevare il velo della critica sul principe dei Social Network? Pure tu, a fare i discorsi dei tromboni? Ma non vedi com’è brutta la vita là fuori? Il marcio c’è soprattutto nei luoghi reali, non in quelli virtuali. E via banalizzando.

Quello che ho capito è che non si può parlare male di Facebook. Ma il mio post aveva fiutato l’aria. Infatti quando l’ultimo dei miei critici aveva appena posato la penna, ecco che il Presidente degli Stati Uniti Obama, già re incontrastato dei social network e primo presidente USA 2.0, impacchetta per le figlie un bel pacco regalo di Natale: basta Facebook, motivi di privacy, e si preoccupa di dirlo al mondo.

Le ragazze non hanno fatto in tempo ad asciugare le lacrime che già in Italia un’altra scuola andava sui giornali consigliando ai prof l’astinenza dall’amicizia virtuale con gli studenti. Così, rinvigorito, torno sul luogo del delitto.

Ma perché mi piace tanto sollevare critiche a Facebook? Il mezzo – lo dico subito – è straordinario: è potente, non s’inceppa, è comunicazione pura, è democratico: dalla Coca Cola a me, siamo trattati tutti alla stessa maniera.

Però Facebook sta dimostrando di avere una capacità assoluta: quella di tirare fuori il peggio dalle persone. È colpa delle persone, intendiamoci, non del mezzo. Ma tant’è. Come scrive sul mio blog Luca Paolini, esperto di educazione e web e favorevole all’uso di FB con gli studenti: «Facebook sta diventando il regno dell’insulsaggine. Ci sarebbero tante cose da dire anche tra i cattolici che lo usano per mettere le immaginette del sacro cuore sanguinante o peggio giocare a Farmville».

Con Facebook si sono moltiplicate le catene di S. Antonio; è aumentato il cicaleccio sul nulla; è stuzzicato il protagonismo anche in assenza di protagonisti; le idee più estreme trovano sempre una condivisione, e quelle più utili restano allo stadio della discussione, quasi sempre senza creare un movimento.

Se è vero che nel nord Africa ci hanno fatto la rivoluzione, l’Europa ne esce a pezzi, con i suoi mi piace, appiccicati su tutto come massima espressione di partecipazione.

Funzionano i Gruppi, ma in fondo svolgono il lavoro delle liste di discussione di 10 anni fa. Così la mia proposta: vietare Facebook a chi in un anno non è riuscito a tirare fuori un’idea, ma ha solo blaterato. Che non è una proposta fascista, ma vuol dire: cancellate dal vostro profilo quelli che hanno fatto solo rumore e tenetevi quelli che è un piacere leggere.

Ecco se guardo come viene usato Facebook, non mi stupisce che l’uomo abbia utilizzato il nucleare per farci la bomba atomica. Mutatis mutandis.

Tra qualche istante posterò questo articolo su Facebook. E riceverò duemila critiche scandalizzate. Sì, perché tra i difetti dei seguaci di Facebook, c’è la mancanza assoluta di ironia.

 

Joseph Ratzinger, forte e sorprendente

Questo mio articolo è uscito su SEGNO, il mensile dell’Azione Cattolica (n. 10, Ottobre) – 

La notte in cui una tromba d’aria ha interrotto la Veglia della GMG di Madrid, la torre di ferro sulla quale avevano montato gli studi TV ha cominciato a ballare come un filo d’erba. C’è poco da divertirsi quando l’elefante su cui sei seduto inizia ad ancheggiare. Sotto di noi due milioni di giovani, sparpagliati su una radura vastissima e secca; qualunque cosa stesse cadendo dal cielo, pioggia, vento, polvere, li stava prendendo in pieno. Tuttavia neppure uno, letteralmente neppure uno, si stava alzando per andarsene.

Ho guardato il palco e ho cercato il Papa. Benedetto XVI aveva interrotto la lettura del discorso. A chi gli si avvicinava per parlargli, rispondeva con un cenno della testa, ma restando immobile col resto del corpo e con gli occhi. L’attenzione era tutta per i ragazzi sotto l’acqua. Li osservava paternamente. Era catturato dalla prova che aveva davanti. Non se ne vanno, no, non se ne vanno. Pensavamo. Lui sorrideva. Stava ricevendo una prova di solidità, che aveva tutto il sapore di una risposta, un grande eccoci collettivo, per le sfide del tempo che aveva indicato loro: l’essere saldi nella fede, e nella roccia della fede, ridare linfa alle radici cristiane dell’Europa. La nuova generazione chiamata a questo compito sembra esserci. L’ha cresciuta la Chiesa, l’hanno cercata i Pontefici.

Ma quando Joseph Ratzinger aveva l’età dei più grandi della GMG, 35 anni, cominciava il Concilio. E lì c’era lui. Giovane teologo portato a Roma dal cardinale di Colonia Frings, chissà che cosa colpì il suo sguardo. Racconta che fu «un’esperienza particolarissima», condita dalla passione che la «fede tornasse a parlare a questo tempo in modo nuovo». Nel 2012 saranno 50 anni dal Concilio ma la questione è sempre la stessa. D’altro canto anche la crisi economica ha un’origine spirituale, come spiega la Caritas in Veritate, e allora? E allora ecco la Nuova Evangelizzazione, un dicastero fortemente voluto ma anche un Sinodo che significativamente si aprirà nello stesso mese del 50° del Concilio, cioè ottobre 2012.

Ed ecco il Papa, testimone diretto dell’esperienza conciliare, porre le basi per la più grande sfida che la Chiesa avrà davanti nei prossimi decenni: figlia del Concilio e nelle intenzioni madre della rinascita di un Continente oggi piegato e umiliato, ma per un singolare privilegio, da sempre chiamato ad essere faro del mondo. La figura di Joseph Ratzinger si staglia nella storia quale quella di autentico gigante: in questo mese lo attende Assisi, dove, a 25 anni dall’incontro voluto da Giovanni Paolo II, abbraccerà i capi delle religioni del mondo, per dire che il nome di Dio non può essere usato per odiare. E un mese fa era ad Ancona, per il Congresso Eucaristico Nazionale, dove ha difeso i disoccupati e in soli 3 interventi ha scritto un compendio di Vangelo, fatto di amore, fede e giustizia. Nuovo Ambrogio, nuovo Agostino, uomo della Verità, Ratzinger è la guida umile, forte e sorprendente, di questo tempo così difficile.

Rosario Carello

 

Come ci cambiano i nuovi media?

Questo articolo è uscito sul numero di agosto di  “Dialoghi”, la rivista di approfondimento dell’Azione Cattolica.

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Il telefonino stretto in mano. Quasi un’appendice, una protesi. Un nuovo modo di stare in mezzo agli altri. Oppure l’agenda, che non è più solo di carta ma sempre più sul tablet o nel cellulare, ma in realtà nel cloud, nella nuvola, e quindi chissà dove. O ancora: lo smartphone, che con mille invenzioni, ci rende impermeabili agli altri, perché autosufficienti, anche nella noia dei tempi morti, come in fila alla Posta o al supermercato. C’è un aspetto che consideriamo ancora poco: il peso che hanno sulle nostre abitudini, e in definitiva sulle nostre giornate, le nuove invenzioni della tecnica. Perché se è vero che la comparsa della lavatrice regalò il tempo di leggere alle nostre nonne, come racconta in un suggestivo quadretto familiare Mario Calabresi[1], cosa sta accadendo ora a noi, testimoni di un’epoca dai cambiamenti fulminei e in corso, e quindi dagli esiti non ancora evidenti? Cosa accade ai nostri figli, nelle classi dov’è sempre più complesso catturare la loro attenzione? Cosa accade a noi, praticamente travolti dalle informazioni ma non per questo più informati?

 

  1. LA MORTE DEL LINGUAGGIO ISTITUZIONALE

Dietro i maglioncini blu con cui i politici si fanno inquadrare nei fine settimana e dietro la romantica mano nella mano che unisce tenere coppie presidenziali USA, pure pubblicamente dedite alla fedifraga attività, si nasconde una morte: quella del linguaggio dell’accademia, dell’istituzione. Lo schema prevedeva un uomo (o una donna) solo al comando su una cattedra, che trasmetteva il sapere. Un trasferimento che aveva la gravità del parto. Era il Maestro Perboni di De Amicis, era l’Anziano del villaggio, era l’Onorevole nell’Italia del 1950. Era il Docente universitario, era l’Esperto in tv, il Medico del paese. Era un’autorità che sapeva, che non doveva essere contraddetta e che si esprimeva con parole che avevano il sapore del definitivo. Certamente un mondo che non c’è più, sepolto, come l’idea stessa di una parola Ultima e Definitiva. È la prova che almeno nella comunicazione il relativismo ha vinto, cresciuto sotto la chioccia dalla luce azzurrina che è la tv, la tv dei dibattiti su tutto, dei talk-show, degli opinionisti a buon mercato, la tv del secondo me. Questa insidiosissima espressione è una sorta di autocertificazione morale, in nome  della quale, senza studio, senza aver approfondito una materia ne si può parlare liberamente. L’altro giorno in parrocchia una coppia si diceva contraria alla posizione della Chiesa in tema di contraccezione. Avevano letto l’Humanae Vitae? No, argomentavano attraverso il secondo me. Così è facile parlare di tutto: storia, scienza, natura, fede. Da Mussolini statista alle adozioni per gli omosessuali, il secondo me ci rassicura e ci autorizza ad intervenire sempre, anche quando non conosciamo i fatti. Il pudore di mantenere il silenzio? Di sospendere un giudizio in attesa di approfondire? Macchè! Approfondiscono per caso le attrici in tv quando balbettano di politica, come fossero editorialisti del Corriere della Sera? No. E i politici quando cantano o ballano, sono per caso un’armonia o una barzelletta? Se i primi quiz televisivi avevano lo scopo di suscitare la curiosità intellettuale degli italiani, generando modelli virtuosi, com’erano i campioni che Mike Bongiorno celebrava, i modelli di oggi, cioè gli opinionisti a basso costo, suscitano un ben altro e più degradante effetto. Se tutto questo è vero, cioè se la cattedra di un sapere appare superflua, a favore del cicaleccio di tante voci, allora è facile leggere il disagio con cui il mondo laico osserva senza più capire taluni aspetti del mondo cattolico. Il sacramento della confessione, l’omelia durante la messa, l’infallibilità del Papa sono temi che riportano ad un centro forte, lontano dall’equivalenza delle proposte. I miei peccati non sono rimessi dal secondo me, ma da Dio per il tramite del sacerdote. L’omelia non è certo tenuta dal primo che passa. E l’infallibilità papale su alcuni temi, ripropone non solo simbolicamente l’idea della cattedra. Aggiungo che è proprio l’idea dell’equivalenza delle proposte ad aver generato l’emergenza educativa: se infatti aiutare a crescere è insegnare a scegliere, non è offrendo il supermercato dei valori uguali, che si agevola il percorso che porta i più giovani a diventare adulti.

La morte del linguaggio accademico-istituzionale è plasticamente resa poi dalla caduta dei simboli dell’istituzione. Il maglioncino dei politici al posto del vestito, il loro privato raccontato da se stessi, sono segnali di resa: io sono come te, caro cittadino, noi siamo uguali, quindi avremo anche gli stessi difetti. Non pensarmi come il tuo regolatore, non sono la tua coscienza, sono il tuo specchio.

Sembra uguaglianza, ma è mimetismo, ed è in nome di questo che i politici dicono e si contraddicono con grande serenità, fino al motto, terribile, che il ministro Gianfranco Rotondi usa sottoscrivere, attribuendolo al suo collega della Prima Repubblica, Fiorentino Sullo, il quale davanti all’accusa di cambiare troppo facilmente idea rispondeva: «In politica, le cose che si dicono, valgono solo nel momento in cui si dicono».

Un altro segno del bradisismo in atto, è visibile nei convegni, sostituiti dai festival, dagli incontri, dai dibattiti, dove al trasferimento dei saperi è subentrata l’esperienza della relazione personale. Meno sapere, più laboratorio. Meno teoria, meno studiare, meno ascoltare e più vedere, più fare, più toccare con mano. E così la differenza che c’era tra l’oratorio e il lavoro, tra il mondo dei ragazzi e quello degli adulti, si è curiosamente assottigliata.

 

 

  1. QUANTI MINUTI DURA LA TUA ATTENZIONE?

Anche il telecomando ha inciso profondamente, in particolare sulla percezione del ritmo. Quanto dura la nostra attenzione? Per quanti minuti riusciamo a leggere un testo senza distrarci? E per quanto riusciamo a seguire senza difficoltà un ragionamento, una lezione, un discorso? Come al primo abbassamento di tensione ritmica di un programma, l’istinto ci spinge a cambiare canale, così vorremmo fare ogni volta che un interlocutore è noioso e una pagina complessa. È come se avessimo perso la capacità di mettere a fuoco, cosa che le moderne macchine fotografiche fanno in automatico. La nostra mente ha solo un fuoco, chi c’è c’è e chi no è fuori. Vorremmo che tutto avesse la tensione narrativa di una perfetta commedia hollywoodiana, e non è un caso che la politica e la pubblicità abbiano abbandonato un linguaggio analitico a favore di uno narrativo. Perché costringere un pubblico riottoso al ragionamento, quando una storia comunica più facilmente? Obama, prima ancora che una proposta politica, è stato il racconto di un formidabile sogno americano, prima da realizzare e poi realizzato. E la cosiddetta discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, attraverso lo storico video inviato alle redazioni, cos’era se non un piccolo film? La paura («Di vivere in un paese illiberale»), l’amore («L’Italia è il Paese che amo»), la famiglia («Ho imparato da mio padre il mio mestiere di imprenditore», che però era un bancario). Parlando all’Assemblea del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Papa Benedetto XVI ha affermato: «I nuovi linguaggi che si sviluppano nella comunicazione digitale determinano, tra l’altro, una capacità più intuitiva ed emotiva che analitica, orientano verso una diversa organizzazione logica del pensiero e del rapporto con la realtà, privilegiano spesso l’immagine e i collegamenti ipertestuali. (…) I rischi che si corrono sono sotto gli occhi di tutti: la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità. E tuttavia essi sono la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni. Ecco perché la riflessione sui linguaggi sviluppati dalle nuove tecnologie è urgente[2]». Il Papa individua con molta precisione questi tre rischi: perdita dell’interiorità, superficialità nel vivere le relazioni, fuga nell’emotività. E il Sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana e Direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali, mons. Domenico Pompili, nel corso del seminario Parola & Parole, organizzato dall’Azione Cattolica[3], ha notato: «Oggi occorre riconciliare, per dirla con due grandi categorie, quello che è il logos e quello che è il pathos. Significa tentare un abbraccio tra queste due dimensioni, che la cultura nella quale siamo immersi tende invece a separare nettamente, optando o per l’una o per l’altra. E dunque producendo inevitabilmente delle situazioni disumanizzanti perché sembrerebbe che il logos raffreddi il pathos e che per comprendere si esiga il distacco dal sentire. Ma quando questa separatezza si compie la comunicazione diventa se-duzione o in-duzione e perde il suo valore educativo, che consiste non nel riempire ma nel liberare, nel portare oltre. E la stessa intelligenza rischia, deprivata di questa forza, di ridursi a intellettualismo, algido». La Chiesa, lo notava nella stessa sede del seminario, il sociologo Michele Sorice, è sempre riuscita a tenere unito il pathos con il logos. Cosa sono le parabole di Gesù o le meravigliose vite dei santi, poste in modo esemplare all’attenzione dei fedeli, se non il frutto di questo saper tenere insieme?

 

CON L’AIUTO DELLE MACCHINE

Ma non ci sono solo rischi, anzi. I cambiamenti sono tanti, positivi e affascinanti.  Durante il seminario dell’Azione Cattolica, mons. Claudio Maria Celli, Presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali, ha citato il caso dell’Uruguay: «In questo momento gli studenti di una scuola primaria, quattrocentomila ragazzini, hanno in mano un piccolo computer di duecento dollari. Voi capite che cosa vuol dire che un bambino dalla prima elementare cominci a riflettere, a pensare, a comportarsi (…) con un computer in mano? Per un bambino di questa età parlare di connessione è di una evidenza solare. Fa sorridere, me lo permettete, ma un bambino che è abituato a vivere in connessione  con gli altri fin dalla prima elementare, capisce subito che cosa vuol dire essere in comunione, in connessione».

Insomma, vuoi vedere che osservando la tecnica capiremo meglio l’essenza dell’essere umano?

 

Rosario Carello

 

 


[1] Mario Calabresi, Cosa tiene accese le stelle, Mondadori

[2] Discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti all’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, 28 febbraio 2011

[3] Organizzato il 3 maggio 2011 dalla Presidenza Nazionale. Nel programma, dopo i saluti dell’Assistente generale mons. Domenico Sigalini e l’introduzione del Presidente Franco Miano, gli interventi di mons. Claudio Maria Celli

Presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali e mons. Domenico Pompili, Sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana e Direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali. A seguire un focus intitolato I volti della comunicazione, con Paolo Bustaffa, Direttore dell’Agenzia Sir, Vania De Luca, Giornalista di Rai News 24 e Presidente Ucsi-Lazio, Michele Sorice, Sociologo e Direttore Cmcs della Luiss, Marco Tarquinio,  Direttore di Avvenire. Hanno moderato le due parti, Fabio Zavattaro, TG1, e Rosario Carello, A Sua Immagine, Rai 1.