IL CASO. Nella spazzatura degli occidentali

Lo spreco. Nella spazzatura non solo rifiuti
Lo spreco. Nella spazzatura non solo rifiuti

Nei giorni del Vertice FAO una terribile conferma

Quasi ⅓ del cibo prodotto nel mondo  finisce nel cassonetto

Perché? Perché vicino alla data di scadenza

Ma non solo.

L’articolo più bello della settimana

 

 

La spazzatura degli occidentali

di Stefano Gulmanelli, per Avvenire

I numeri sono impressionanti: Mark & Spencer, la catena inglese di supermercati, getta ogni anno nella spazzatura 20mila tonnellate di cibo non smerciato; la connazionale Sainsbury va oltre: le tonnellate annue di derrate alimentari che manda in discarica sono 60mila.

Di là dall’Atlantico, negli Usa, il trend è lo stesso, se non peggio: il cibo che entra nei supermercati e nei ristoranti ma che nessuno mangerà è il 30% del totale.

Di qua dalla Manica, l’Europa continentale (Italia compresa) nel suo insieme butta via ogni anno 200 milioni di tonnellate di alimenti. E questi non sono che alcuni dei dati sullo spreco alimentare riportati in abbondanza da Tristram Stuart nel libro “Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare” (Bruno Mondadori).

Nella sua opera, redatta nel corso di 10 anni passati a raccogliere informazioni e viaggiare intorno al mondo per studiare il rapporto fra le varie popolazioni e il cibo, Stuart mette a fuoco una realtà – quella del pessimo uso che facciamo del cibo – che nemmeno i più pessimisti ipotizzavano così oscena nei suoi risvolti etici.

L’indagine a tutto campo di Stuart parte dai cassonetti dell’immondizia dei supermercati della Gran Bretagna. È da essi che il 32enne Tristram, una laurea a pieni voti a Cambridge, estrae ormai da anni quantità spropositate di cibo perfettamente commestibile. «Non scavo fra i rifiuti dei supermercati solo per rimediare un pasto più che dignitoso – scherza Stuart – ma per mostrare a quanta più gente possibile che nell’immondizia quella roba non dovrebbe andarci per nessun motivo».

E invece ci finisce, ogni giorno e a tonnellate; in parte è «stock in eccesso», in parte sono confezioni danneggiate o, semplicemente, in imminente scadenza. «Un surplus enorme», sottolinea Stuart, il cui approccio alla questione non è mai ideologico né pregiudizialmente ostile a questo o quel soggetto economico.

Al contrario, la trattazione rimane il più possibile analitica; tanto che nel caso dei supermercati il libro descrive in dettaglio i meccanismi commerciali che perversamente rendono possibile e anzi determinano tale situazione.

Due su tutti: la necessità di offrire scaffali sempre pieni a clienti ormai assuefatti a negozi cornucopia e gli alti margini dei supermercati che rendono più conveniente sovrastoccarsi e poi buttare piuttosto che rischiare di “perdere” vendite per mancanza di merce.

Il tutto poi, sottolinea Stuart, finisce per avere un effetto di spiazzamento – e di conseguente spinta all’insù dei prezzi – che colpisce quanti sul mercato dei prodotti alimentari ci entrano non per bulimia da benessere ma per garantirsi la mera sussistenza. Ma la descrizione dell’incredibile spreco occupa solo una parte del libro di Stuart.

Nella seconda metà l’autore passa ad argomentare le conseguenze ‘ambientali’ di un uso così indegno del cibo.

Sono capitoli particolarmente indige­ti, soprattutto per l’occidentale medio, poiché – se è vero che lo spreco è presente anche in altre culture e parti del mondo – è l’Occidente a risultare il protagonista quasi assoluto dell’ignobile scenario descritto.

E questo, alla luce del legame fra spreco alimentare e conseguente danno ecologico finisce per fare apparire pretestuosi i richiami dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo circa la necessità di una loro presa di responsabilità ambientale.

«Stiamo trasformando il pianeta in un’enorme fabbrica alimentare – dice Stuart -che produce cibo che il mondo sviluppato utilizza come una commodity qualsiasi, senza riguardo per le implicazioni sociali e ambientali della sua produzione ».

I dati al riguardo sono chiari: un terzo della superficie terrestre è ormai destinata ad agricoltura e allevamento. Dove ora ci sono campi e pascoli, prima c’erano distese di piante e alberi: foreste e giungle che permetterebbero (o avrebbero per­messo) il contenimento delle emissioni. «Un terzo dei gas serra europei viene dalla produzione agricola se solo dimezzassimo lo spreco alimentare, le emissioni potrebbero abbattersi del 10%». Una soglia di riduzione spesso considerata “eroica” da governanti ed economisti se perseguita con mecca­nismi complessi quali la carbon tax o “il sistema di scambio di quote di e­missione”. «In teoria – continua Stuart – se piantassimo alberi sui terreni oggi sfrut­tati per produrre il cibo che va but­tato potremmo veder ridotte le e­missioni del 50%».

In pratica, è la conclusione di questo giovane rovistatore di cassonetti dell’immondizia, se solo sapessimo concepire un benessere che non necessariamente si identifichi con lo spreco potremmo allentare non solo la pressione sul mercato delle derrate alimentari a beneficio dei più poveri ma persino dare un po’ di respiro a un pia­neta ormai in asfissia.

L’Europa continentale, Italia compresa, nel suo insieme butta via ogni anno 200 milioni di tonnellate di alimenti «Un terzo dei gas serra viene dalla produzione agricola: con meno sperpero, emissioni giù del 10%»

Stefano Gulmanelli per Avvenire

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