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DIBATTITO. La 40enne senza un uomo

 matrimonio5_11Scrive Paola (dal Corriere della Sera): «Al mattino, quando mi sveglio da sola, sempre da sola, guardo i miei occhi da quarantenne, e mi domando «dove»-«cosa» c’è di sbagliato? Non mi reputo orrenda, né antipatica, né sciocca… (…) e il desiderio di condivisione, di coccole e scambio con un uomo è ogni giorno più preponderante».

È la single infelice, come la chiama il Corriere, sul cui forum gli uomini l’hanno attaccata mettendo in dubbio la sua moralità e le donne, peggio, si sono incavolate: è lecito ad una 40enne del 2009 pensarla come la bisnonna? Secondo loro il desiderio del matrimonio è roba d’altra epoca. I comportamenti, anche quelli più licenziosi, sono giustificati,  ma il bisogno di essere amati, no. La grande questione educativa tocca qui una delle sue ferite più aperte: l’educazione sentimentale.

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Come vivere felici non essendo miliardari

Stefano Zamagni per www.piuvoce.net

 

L'economista Stefano Zamagni
L'economista Stefano Zamagni

Il tema degli stili di vita è oggi particolarmente attuale per almeno tre ordini di ragioni.

La prima ragione è riconducibile a un fenomeno noto, ossia il paradosso della felicità.

Si tratta di un fenomeno secondo il quale all’aumentare del reddito pro capite non corrisponde un aumento della felicità e, anzi, oltre una certa soglia, si registra addirittura una diminuzione. E così il detto “La ricchezza non dà la felicità” riprende una sorprendente veridicità, mentre storicamente si pensava fosse solo un luogo comune, una sorta di detto popolare, nato per giustificare l’incapacità del sistema economico di generare progresso e dare benessere ai cittadini.

Ma, ormai più di 30 anni fa, l’economista Richard Easterlin studiò questa curva, giungendo a scoprire che quel detto conteneva una verità fondamentale. Le teorie che incoraggiavano a sacrificarsi oggi per un futuro roseo, acquistano ora un senso relativo perché  abbiamo sperimentato che il nostro stile di vita attuale, fatto di ricchezza e benessere, non fa necessariamente stare meglio. Davanti a ciò la gente si domanda che senso abbiano il lavoro e il sacrificio se i soldi non rendono felici.

La seconda ragione è da ricondurre al fatto che negli ultimi due secoli lo sviluppo economico ha provocato di fatto la distruzione dell’ambiente. Abbiamo finora vissuto uno stile di vita basato sul consumo irrazionale della terra e dell’acqua, che si è rivelato insostenibile nel tempo. Il vincolo ambientale sta inducendo un cambiamento nel nostro modo di consumare, nell’oggetto del nostro consumo e anche nel livello del consumo.

Il terzo motivo per cui si è tornato a parlare di stili di vita è la presa d’atto dell’esistenza di una categoria di beni, i beni relazionali, che sono soggetti a una forma di scarsità di tipo non materiale, bensì sociale. Gli essere umani hanno necessità di consumare questo tipo di beni ma il meccanismo del mercato non è in grado di produrli. La gente ne ha bisogno, ma non ci sono soggetti di offerta. Si tratta, come abbiamo detto, di una scarsità che non è materiale, perché i beni relazionali sono legati alle relazioni interpersonali e la loro esistenza presuppone un rapporto tra le persone.

Lo stile di vita della società industriale ci ha letteralmente inondati di beni materiali di tutti i tipi, ma ha impedito la generazione di beni relazionali. La società pre industriale, al contrario, non era capace di produrre beni materiali sufficienti, ma era in grado di produrre beni relazionali.

La sfida oggi consiste nel modificare il nostro stile di vita senza dover tornare alla società pre industriale. Noi, infatti, abbiamo bisogno dei beni materiali e sappiamo che sono una cosa buona; per questo motivo non accettiamo la tesi della “decrescita” in cui si teorizza un ritorno alla fase pre industriale. L’obiettivo, infatti, non è tornare indietro ma andare avanti in un modo diverso, riproporzionando, aumentando i beni relazionali e diminuendo quelli materiali. In Usa circa vent’anni è stato fatto un tentativo in questo senso con la creazione del “mercato dell’amicizia”, un tentativo naturalmente destinato a fallire.

 

Questo tema è per la prima volta anche affrontato in un’enciclica. Nelle precedenti, infatti, si parla solo di beni materiali o al massimo di welfare, oggi invece si torna a parlare di fraternità e della società fraterna come la sola via in grado di generare beni relazionali. Questo approccio differisce profondamente da quanto affermato nella teoria della decrescita, che abbiamo menzionato prima; essa, infatti, ha fondamenti esclusivamente materialistici e non dà alcuna indicazione sulla creazione dei beni relazionali, perché considera solo l’aspetto materiale della realtà.

In questo momento penso che la Dottrina sociale della Chiesa sia l’unica via d’uscita per risolvere il problema degli stili di vita, perché parla di fraternità e impegna i credenti a tradurre tale principio; è una sfida grossa ma possibile perché la gente è stufa. In concreto, ad esempio, cambiare stile di vita può voler dire che il bello, in senso culturale e artistico, deve diventare oggetto di consumo popolare. Nella società industriale era riservato ai ricchi, oggi invece bisogna fare in modo che il bello sia fruibile da tutti e questo è il terreno in cui la visione cristiana può dare il maggior contributo, come d’altra parte ha fatto finora. Basta vedere le cattedrali: opere magnifiche e aperte a tutti.

E’ la dimostrazione che non è vero, anzi prova il contrario, che il secolarismo segnerà la fine del cristianesimo.

Stefano Zamagni per www.piuvoce.net

Così l’America sta cambiando i quotidiani

Christian Rocca per “IL FOGLIO”

Riusciranno Time e Newsweek a salvare i giornali misteriosamente scomparsi su Internet?
I giornali sono in crisi, licenziano, chiudono uffici di corrispondenza e – nel caso di Us News & World report, Christian Science Monitor e Detroit Free Press – abbandonano addirittura la pubblicazione cartacea per traslocare in toto su Internet, in realtà senza serie garanzie di sopravvivenza. L’unica impresa giornalistica online autosufficiente a oggi è quella del giovane The Politico, i cui ricavi però arrivano al sessanta per cento dalla pubblicità raccolta dall’edizione cartacea distribuita tre volte a settimana al Congresso di Washington.

Il grande dibattito sul futuro dei giornali è cominciato da tempo, negli ultimi mesi è diventato più urgente perché la crisi economica ha ridotto gli investimenti pubblicitari con effetti devastanti sui bilanci dei giornali. Il New York Sun e il Baltimore Examiner hanno salutato i lettori per sempre, tutti gli altri, compresi i big New York Times, Wall Street Journal, Time, Newsweek, Associated Press, Bloomberg e i network televisivi hanno tagliato costi e personale senza tante storie. C’è chi pensa che nell’era dell’economia free, gratis, il giornalismo commerciale non abbia alcun futuro, se non quello di trasformarsi in impresa non profit, come i centri studi e le fondazioni culturali finanziate da  mecenati e filantropi sul modello dei think tank americani. C’è già un esempio, quello di ProPublica, un’impresa redazionale senza fini di lucro che non produce un giornale, ma servizi e inchieste pubblicate e trasmessi da New York Times, Los Angeles Times, Cnn, Cnbc e un’altra ventina tra quotidiani, riviste e televisioni.

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Una politica per la vita

PIU’ ETICA PER LA SOCIETA’
BENEDETTO IPPOLITO PER “AVVENIRE”

Il 21 marzo è stato presentato a Roma, dall’Associazione Scienza & Vita, dal Forum delle famiglie a da Retinopera, un importante Manifesto etico dal titolo ‘Liberi per Vivere’. Si tratta di una proposta culturale sintetica ed efficace, ormai abbastanza conosciuta, che si propone come scopo la diffusione di una cultura favorevole alla vita umana.
Leggendo tra le righe le tesi richiamate nel breve programma, si rimane colpiti soprattutto dall’elevata universalità dei contenuti, senza alcuna parzialità e senza alcun richiamo diretto alla fede. Si parla esplicitamente della vita umana come un fine, del significato trascendente che ha la singola esistenza personale, considerando, senza mezzi termini, la struggente situazione di disagio e di dolore dei malati, soprattutto nei casi estremi di sofferenza e solitudine.
Ai tre Sì programmatici principali – alla vita, alla medicina palliativa e all’umanizzazione dei malati – si affianca un rilievo costante e preciso a favore di un insieme vasto e universale di valori antropologici.
D’altra parte, considerando i diritti fondamentali della persona, e in primo luogo l’intangibile indisponibilità individuale d’ogni vita umana, è difficile pensare che qualcuno possa sentirsi escluso dal novero della citazione. Sembrerebbe perfino inutile richiamarsi – come giustamente avviene nel documento – alla Costituzione, giacché la prospettiva è l’umanità nel suo insieme, e non una singola comunità nazionale.
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